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Raffaele Cirillo

Un’arte senza replica – Intervista a Giò Di Tonno

Un’arte senza replica – Intervista a Giò Di Tonno

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Raffaele Cirillo

In occasione dello show conclusivo di “MusicFilm”, il 7° Festival delle colonne sonore, ho avuto il grandissimo piacere di intervistare Giò Di Tonno, vincitore del festival di Sanremo nel 2008 insieme a Lola Ponce con il brano Colpo di Fulmine scritto per loro da Gianna Nannini e celebre per l’interpretazione di Quasimodo nel fortunato musical Notre Dame de Paris di Riccardo Cocciante.

Partiamo dal tuo percorso e come è avvenuto l’incontro con il musical.

Io ho un percorso un po’ strano perché ho cominciato con la musica classica da bambino, poi mi sono avvicinato come tanti al pop, ai cantautori italiani del periodo d’oro. Io sono nato nel 1973 e quando avevo 13/14 anni c’era il boom dei grandi come Fossati e De André ed era un mondo che mi affascinava molto, dunque ho iniziato a scrivere anche delle canzoni mie e mi proponevo spesso come cantautore a quelli che erano i “talent” di allora, non c’erano ovviamente X-Factor, Amici, The Voice ecc. ma c’erano i concorsi sparsi per l’Italia che ti davano visibilità.
Poi il primo festival di Sanremo a 20 anni tra le nuove proposte e lì mi resi conto che forse non ero ben strutturato dal punto di vista artistico. Ricordo che un amico regista mi disse: “tu devi fare qualcosa anche per la tua timidezza, devi scioglierti un po’. Va bene il cantautore con le sue sofferenze leopardiane però devi aprirti…” e da lì ho incominciato a studiare recitazione e a fare corsi di improvvisazione teatrale, studiare canto – cosa che prima non avevo mai fatto – e l’insieme di queste esperienze mi hanno avvicinato al mondo del teatro e quindi, cantando, anche a quello del musical. Mi sono appassionato facendo degli spettacoli semi-professionali e poi è arrivata la grande occasione con Notre Dame de Paris.

Vorrei tornare un momento sulla questione della timidezza anche perché mi ci rivedo. Uno strumentista sul palco è sempre “protetto” può nascondersi con lo strumento, un cantante questo non se lo può permettere, come lo si affronta?

Si dice che la voce non mente, è lo specchio di quello che siamo dentro, della nostra anima e del nostro cuore. Non ci possiamo proteggere con il microfono perché non fa altro che amplificare tutto ciò che è la nostra più profonda intimità.
Mi piace considerare che nella vita di tutti i giorni la timidezza è un valore. Può essere un valore il fatto di “non sbracciare”, di guardare e vivere la vita un po’ al margine, prospettiva dalla quale si riesce a osservare meglio le cose, sempre se questo non diventa un ostacolo o un limite quando è troppo estrema. Le persone timide hanno poi il palcoscenico per essere altro, per raccontare un’altra vita, che sia all’interno di una canzone o che sia all’interno di uno spettacolo, il bello viene con “lo scopo terapeutico del teatro”, la possibilità di conoscersi meglio e di essere altro rispetto a sé stessi. Questo solo quando il teatro lo studio in un luogo definito: un luogo d’infanzia, dove si può osare, giocare fino a spingersi oltre i limiti della propria natura, e un grandissimo modo per conoscersi e farsi conoscere attraverso l’interpretazione di altri personaggi.

Questo percorso del lavorare sul di sé e di conoscersi attraverso l’interpretazione degli altri non può essere un rischio? Rimanere irretiti e perdersi?

Può essere un rischio se ci si ostina nell’emulare. Può partire come un gioco e poi diventare uno studio, qualunque attività è fatta da emulazione. Pensa agli sportivi, i bambini da piccoli guardano i grandi campioni e cercano di riprodurli e piano piano imparano a fare delle cose più difficili.
Per i cantanti, come per gli strumentisti, è la stessa cosa. I chitarristi che fanno degli assoli, che cercano il suono di un determinato chitarrista piuttosto che un altro e poi trovano la loro dimensione. Questo sta nella conoscenza, nella ricerca trovare la propria personalità e la propria consapevolezza. Quando si conoscono bene i mezzi che si hanno a disposizione, in questo caso, per quanto mi riguarda, parliamo soprattutto della voce, ci porta a trovare anche la nostra dimensione.

Esiste il talento?

Talento è una parola che non mi fa impazzire perché oggigiorno se ne abusa un po’.  Basta sentire uno mediamente bravo, che canta bene, che è intonato e che ha una bella voce che si parla subito di talento. Io parlerei più di una predisposizione. Esiste qualcuno che è assolutamente predestinato anche perché ha avuto la fortuna di essere comunicativo, di avere qualche caratteristica che sia nell’interpretazione, nella voce nell’atteggiamento, quell’insieme di cose che a volte non si sa neanche spiegare per cui alcune persone arrivano a destinazione e altre meno. Io so solo che per esperienza che tutte queste doti vanno veicolate nel miglior modo, vanno sapute gestire perché possono diventare un’arma a doppio taglio. Se pensiamo al talento come dote “naturale”, il talento agisce per fattori emotivi e allora se si è carichi e si riesce a comunicare delle cose; a volte non si sta bene, si è mentalmente e fisicamente scarichi e allora si fa fatica. Nel mondo del teatro musicale non te lo puoi permettere perché la resa deve essere sempre al top. Il talento nel mondo del pop può avere più valore rispetto al mondo del teatro.
Il teatro è fatto di molti sacrifici, di molto studio, però è ovvio che bisogna partire con delle peculiarità ben precise, con il solo studio non si può fare tutto. Ci sono persone che possono studiare secoli e rimanere sempre lì e invece altre persone che hanno doti innate. Questo un po’ come certi attori del neorealismo, che diventavano delle maschere: Alberto Sordi, Totò, questi personaggi mitici che non avevano studiato però avevano questa predisposizione, qui la parola talento ha più senso.

Da talento a talent già qua c’è un abuso del termine, che ne pensi? Rispetto ai vari concorsi di cui parlavi prima, che erano la strada quando hai iniziato tu, pensi ci sia stata un’evoluzione in negativo?

Si va a cercare anche il talento; ma anche il personaggio che risponde a certi canoni che qualcuno pensa possano funzionare. Non te lo so dire. Ti so solo dire che le possibilità che hanno adesso i ragazzi oggi sono quelle, le strade sono quelle, senza fare discorsi sociologici. Di sicuro la televisione ha spettacolarizzato tutto e ha tolto qualcosa di genuino alla musica. La musica non è competizione. C’era il festival di Sanremo che era una vetrina, che era il modo per far conoscere le canzoni agli italiani – ti parlo proprio dalla nascita del festival – poi con il tempo è diventato tutto una competizione. Oggi è tutto una competizione. Questa cosa cozza proprio con l’essenza primaria della musica. Chi ne ha beneficiato di tutto questo? I giudici che sono diventati veri personaggi, si parla più di quello che di altro.

Per esempio il caso Morgan di questi giorni…

Si, ma anche negli anni, quanti giudici ne hanno beneficiato perché le case discografiche avevano bisogno di rilanciare un artista piuttosto che un altro, metterlo in giuria, qualcuno dal carattere focoso che creava polemica ed ecco che facevi lo show televisivo. Io conosco tanti ragazzi che negli ultimi anni hanno fatto talent e quasi a tutti è stato detto: “qua non vieni a fare musica vieni a fare spettacolo, vieni a fare televisione”. Il fatto che ti scelgono perché hai una bella voce, una bella presenza poi ti impongono di cantare certi pezzi che magari ti snaturano un po’. Io sono poi dell’avviso che se c’è davvero quell’“X-factor”, se hai veramente qualcosa da dire, da comunicare e sei una grandissima personalità prima o poi vieni fuori. E come le canzoni, per me hanno vita propria, arrivano da qualche parte, non credo che si trovi Yesterday in un cassetto. 

Niccolò Fabi racconta che “il suo ruolo d’artista è quello di far piangere le persone” tu invece che ruolo pensi di ricoprire e che tipo di messaggio vuoi comunicare quando scrivi e canti?

Io sono d’accordo con Fabi, tra l’altro è un artista che apprezzo tantissimo, è uno dei più grandi cantautori che abbiamo. La musica deve emozionare. Poi c’è la musica che diverte, ma io sono tra quelli per cui la musica deve strapparti qualcosa di profondo, deve lasciare il segno. Per molti, in tanti casi, è un po’ un rifugio, è quell’attimo di raccoglimento con sé stessi, ascoltare parole di una canzone che ti possono riportare a dei momenti importanti, aiutarti a curare delle ferite.
Io sono uno che ama le canzoni tristi. Io sono orientato a una scrittura che inviti un po’ alla riflessione a qualcosa che sia drammaturgicamente profondo. 

Fare musical è estremamene faticoso, quanto è difficile rimanere performanti?

Come dicevo prima non ti puoi permettere di avere dei momenti di down perché se no c’è qualcuno che prende il tuo posto (ride).  C’è anche una questione di rispetto per quello che fai, per quello che è un percorso che uno ha fatto di impegno e studio, devi rispettare te stesso e il pubblico che paga un biglietto per vederti. Il lavoro è tanto, fisico e mentale, c’è tanto impegno, non ci si inventa niente. Il bello del teatro è anche che ogni volta è una prima, buona la prima sempre. Non hai diritto di replica. È un’arte meravigliosa perché la distruggi nello stesso momento in cui la crei e quello che hai fatto rimane e poi immediatamente scompare, non hai una seconda possibilità come può succedere se fai un film o in televisione.

Questa prospettiva è interessante, non ci avevo mai pensato. Non è mai una replica…

Sì, sembrerebbe che tutto sia sempre uguale a sé stesso, ma in realtà cambia. Cambia lo stato d’animo, cambia lo spettatore, cambia il punto di vista.

E questo incide così tanto?

Sì, ma la considerazione che hai soltanto quella possibilità aiuta, come aiuta pensare che lo stai facendo sempre per una persona diversa e questo è importante. Anche se poi uno lo fa per sé stesso, nel senso che l’appagamento principale è sempre nostro perché abbiamo scelto questo mestiere, anzi direi che forse è la passione che ha scelto noi. Quando fai questo mestiere non puoi prevedere un piano B. Io penso che siano le passioni a sceglierci e non ci si staccano più di dosso. Che può essere positivo ma anche una condanna quando le cose non vanno bene.

Il rischio di una passione così viscerale è anche quello di non riuscire più a staccarsene e vivere completamente di quello.

Sì, devi essere bravo. Io con gli anni ho imparato ad esserlo perché ho due bambini, una famiglia e ho imparato a scindere le cose. Ti faccio un esempio: prima tornavo a casa, mi veniva l’ispirazione creativa e dopo cena mi mettevo a lavorare, adesso in realtà faccio orario da ufficio. In questo è stato d’ispirazione Ennio Morricone che lui diceva che iniziava a lavorare alle 6 del mattino e alle 8 di sera aveva finito, dopo 14 ore di lavoro. C’è anche un’altra vita, non c’è soltanto quello. Io lavoro tantissimo ma vivo tantissimo, voglio godermi i miei figli e mia moglie e tante altre cose. 

Al giorno d’oggi sembra possibile tutto per tutti con il solo studio e lavoro, hai dei consigli onesti da dare a chi vuole intraprende questo percorso?

Il mestiere di performer è estremamente impegnativo perché richiede un totale coinvolgimento e un coraggio che si sviluppa nel tempo. È importante comprendere che non ci sono molte vie di compromesso, non tanto nella scelta dei progetti, quanto nella decisione di intraprenderlo. È necessario impegnarsi appieno o è meglio lasciar perdere. Fare musica o recitare richiede un impegno totale, sacrificando tempo e risorse, altrimenti è meglio praticarlo come un hobby amatoriale.
Questo concetto vale per i performer, i musicisti e gli artisti in generale. Devi essere disposto a dedicarti completamente, altrimenti è meglio limitarsi a esibirsi come cantante da karaoke la sera per divertimento e dedicarsi ad altre attività, perché questo mestiere costa tantissimi sacrifici. È anche importante capire a un certo punto se vale la pena continuare e non intestardirsi in una cosa che non ci appartiene. Questo è una cosa che si sente dentro di sé secondo me, devi avere la fortuna e l’intelligenza di sentire se è il caso di continuare oppure no.
Ci sono comunque tante altre possibilità. Magari uno può diventare un bravissimo caratterista, un bravissimo “figurante”, se parlo di caratterista nel musical è un po’ come per il cinema. Ci sono quei ruoli per personaggi che fanno determinate e specifiche parti che magari non potranno mai essere protagonisti però sono fondamentali. Ci sono figure pazzesche nella storia del cinema che hanno fatto solo la spalla piuttosto che dei ruoli comprimari che ti ricordi sempre e che si sono visti in molti film e che hanno contribuito anch’essi alla fortuna del cinema.

Un sogno nel cassetto?

Dal punto di vista artistico, realizzare i progetti a cui sto lavorando, materializzarli, portarli in scena. Per uno ci siamo quasi, dovrebbe vedere la luce a fine 2024, ci stiamo già lavorando con un produttore ed è una cosa tutta mia in cui sono compositore e interprete insieme a molti altri colleghi del teatro. Il mio sogno più grande è quello di poter fare soprattutto il compositore.

Ringrazio di cuore Giò Di Tonno per la disponibilità nonostante gli impegni molteplici e per la sua gentilezza che ha reso possibile questo momento.

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