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Giovanni Ferrari

L’amore è una fiamma – ARS ANTIQUA WORLD JAZZ ENSEMBLE

L’amore è una fiamma – ARS ANTIQUA WORLD JAZZ ENSEMBLE

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Giovanni Ferrari

Intevista a Roberto Manuzzi, Rachele Amore e Davide La Rosa della ARS ANTIQUA WORLD JAZZ ENSEMBLE

La ARS ANTIQUA WORLD JAZZ ENSEMBLE è un progetto nato in seno al conservatorio G. Frescobaldi di Ferrara nel 2021, guidato dalla passione del docente Roberto Manuzzi per la scuola siciliana. Il nome è tutto un programma: le numerosissime influenze e ispirazioni del complesso, dalla musica tradizionale mediterranea al jazz, dalla musica etnica ad accenni di progressive rock, fanno da cornice ad una reinterpretazione di testi del poeta Jacopo da Lentini e non solo. Abbiamo avuto il piacere di parlare con il compositore Manuzzi, la cantante Rachele Amore e il chitarrista Davide La Rosa dell’esperimento musicale e del suo invito a vivere la musica con una nuova intimità.

I componenti del gruppo:

Roberto Manuzzi – composizione, arrangiamento, direzione e sassofono

Rachele Amore – canto e percussioni

Ares Tavolazzi (guest artist) – contrabbasso

Antonio Stragapede – mandolino

Erica Ruggiero – pianoforte acustico ed elettrico, clavicembalo, cori

Stefano Melloni – clarinetto, flauti a becco, figulino

Paola Tagliani (guest artist) – pianoforte

Stefano Guarisco – batteria

Raffaele Guandalini – contrabbasso, basso elettrico

Davide La Rosa – chitarra elettrica e acustica

Pietro Boarini – chitarra elettrica

Davide Zabbari – viola da gamba

Fausto Negrelli – vibrafono e percussioni etniche

Copertina di Chiara Sgarbi.

Una curiosità: è una coincidenza il fatto che ad interpretare sonetti di Jacopo da Lentini ci sia una cantante [Rachele Amore] che viene proprio da Lentini?

Roberto: Io credo che le cose non avvengano mai per caso, quando ci sono due coincidenze bisogna per forza seguirle. Infatti, quando ho scoperto che Rachele viene da Lentini, proprio in quel momento mi stavo appassionando alla scuola siciliana: evidentemente c’è qualcosa nell’universo che vuole che noi mettiamo mano a questo progetto. Poi lei viene da una famiglia di musicisti, tutta la vita ha fatto musica popolare e tradizionale. Sempre per le grandi coincidenze, suo padre conosce benissimo un altro musicista lentinese che abita a Ferrara da trent’anni che è Alfio Antico. Devo dire che le musiche sono venute fuori in maniera molto spontanea, non a caso Jacopo da Lentini è accreditato come l’inventore della forma del sonetto, quindi è già “pronta” per essere musicata. Abbiamo affiancato allora queste musiche che sono vagamente mediterranee, pop, jazz, non si sa bene… però dove la parola salta fuori. D’altra parte, molte persone ci hanno detto anche: “non si capisce nulla, ma il concetto arriva.” Ci sono delle parole che non si capisce da dove arrivano, ho chiesto anche a diversi amici linguisti di fare una trascrizione, insomma, queste cose sono quasi intraducibili, anche perché alcuni termini sono andati persi nel tempo.

Cosa ti ha fatto arrivare a Lentini? Qual è il percorso che ti ha portato a voler studiare e interpretare i suoi sonetti?

Roberto: Diciamo che ho sempre avuto una tendenza a voler scrivere, talvolta scrivo qualcosa di mio, anche se con risultati discutibili. Sono stato a contatto con un uno dei maggiori cantautori italiani che è Francesco Guccini, quindi, questo senso dell’uso della parola, della sua musicalità, credo di averlo un po’ capito. Ad ogni modo, è stato il testo a dettarmi le note, poi ho cercato di associare uno stile più moderno al testo. Secondo me gli estremi un po’ si toccano, per trovare la musica non banalizzata da troppe esecuzioni e appesantita da troppe ricerche, troppi dettami, bisogna andare molto lontano. Queste cose poi suonano molto contemporanee, anche se sono vecchie di ottocento anni.

Qual è l’intenzione dietro la fusione di generi come jazz, world music e folk?

Roberto: Un’operazione così potrebbe sembrare una noia terrificante, una cosa estremamente colta, elaborata, ma in realtà no. È musica anche di gradevole ascolto, come sicuramente era allora. Quando riascoltiamo le versioni “filologiche” di musiche del 1200-1300 secondo me spesso mancano degli elementi che allora c’erano. Cosa facessero veramente gli strumenti non possiamo saperlo e non ne abbiamo nessuna traccia. Quello che adesso ci si può avvicinare è la musica mediterranea, di origine araba. È come se vedessimo, rispetto alla musica antica, una fotocopia di una fotocopia sbiadita, da cui ricaviamo pochissimi elementi. Quello che voglio dire, al di là della musica religiosa, di cui c’è un esempio nel disco, la musica è fatta per divertirsi. Secondo me chi suonava all’epoca traeva grande gioia e allegria, infatti molte versioni che facciamo noi sono decisamente più movimentate.

C’è un destinatario in mente come ascoltatori del CD? Con che spirito uno dovrebbe ascoltarlo?

Davide: Allora, diciamo che non so se potrei individuare esattamente un destinatario, secondo me la musica è per tutti, deve essere per tutti e deve arrivare a tutti. Io credo che questo particolare album vada ascoltato con una certa attenzione secondo me, poi ognuno può fruire della musica nella maniera più libera possibile. In un’epoca come questa in cui tendiamo a usufruire di tutto in una maniera molto veloce, non si fa attenzione, ecco secondo me questo album sia finalmente un’occasione per tornare ad ascoltare e far caso ai suoni, alle parole. Anche perché, come è stato detto prima, anche se questi testi sono datati io ci ho ritrovato, riascoltandoli, delle tematiche molto attuali. Sono cose che fanno parte della natura umana, da sempre e per sempre. Quindi io spero che questa nuova opera sia ascoltata con attenzione, o comunque prendendosi del tempo. Come dicevamo prima è anche godibile, per cui non penso sia impossibile fruirne in modo leggero, però vorrei anche che scattasse qualcosa che faccia riflettere.

Ha a che fare anche con la scelta di distribuirla solo su BandCamp, in formato digitale o CD?

Davide: Beh, tralasciando i discorsi più pragmatici, avere qualcosa di fisico in mano secondo me aiuta a prestare un certo tipo di attenzione. Penso che oggi viviamo un paradosso per cui la musica arriva a tutti, è più democratica, però forse il rovescio della medaglia è che impoverisce un po’ i contenuti. Lungi da me demonizzare queste piattaforme, perché danno un sacco di possibilità, però è sempre l’uso veloce il problema. 

Anche perché l’album tutto intero è diverso da ascoltare una canzone ogni tanto che ti propone un algoritmo.

Davide: Esatto, le famose playlist. Poi acquistare il CD ti permette di leggere il booklet, se c’è, puoi apprezzare l’opera a trecentosessanta gradi. Se skippi cosa hai capito? Per noi musicisti è importante, magari se ne parli con uno che non è del settore ti risponde che è abituato così.

Naturalmente da generazione a generazione cambia. I miei genitori erano abituati ad avere solo il disco, quindi dovevano interpretarlo basandosi solo sulla copertina.

Davide: I giovanissimi sono molto ricettivi a tutto. Se si educa già da subito ad un approccio del genere non è vero che “i giovani d’oggi non riescono ad apprezzare la musica”, anzi, se riesci a trasmettere una passione sono i primi a coglierla. Di questo ne sono certo.

Rachele: Condivido appieno tutto quello che ha detto Davide. Io penso che ci siano vari modi di ascoltare la musica. Ad esempio, in questo disco penso che ci sia una certa ballabilità, un brano fra tutti è Alta alta es la luna: ancora oggi ascoltandola mi viene da ballare, da molleggiare. Mi è capitato di metterla a casa con i miei genitori ed è venuto spontaneo di ballarci sopra. Collegandomi al discorso successivo, spesso capita che oggi non ci si chieda la storia del brano che si sta ascoltando. Non solo dal punto di vista tecnico compositivo, anche in che anno è uscita, l’etichetta, la copertina… non c’è mai una forma d’arte da sola, deve essere sempre accompagnata. Poi, la musica un po’ ragionata a volte viene messa da parte, ad esempio uno va al lavoro la mattina in autobus, mette le cuffiette e la musica deve “fare compagnia”. Io non penso sia così, deve essere qualcosa in più nella giornata, deve aggiungere qualcosa. Nello specifico, questo disco secondo me va prima ascoltato, poi interpretato, però inizialmente non serve sapere le parole, riesce a trasmettere qualcosa di per sé. I testi comunque possono essere molto attuali.

Roberto: Chiaramente il tema è quello dell’amore, fino a tutto il dolce stil novo gli scrittori non hanno fatto altro che parlare di quello. Dante è arrivato dopo e ovviamente ha citato Jacopo da Lentini come uno dei suoi maestri. Questo amore che è meraviglia e terrore allo stesso tempo, gioia e tormento. Il testo della prima canzone parla degli opposti: “ho visto il temporale in una giornata luminosa”, “ho visto il fuoco raffreddare e il gelo riscaldare”, è tutto un gioco sugli opposti. Allo stesso modo, “perché godo di questo amore e allo stesso tempo sto soffrendo come un cane”?

Come si è sviluppato l’approccio ai testi? Sia dal punto di vista compositivo che interpretativo.

Roberto: È difficile adattare una metrica musicale al sonetto, perché il sonetto è fatto da versi organizzati come 4-4-3-3, “stona” dal punto di vista delle metriche che spesso sono binarie. Allora ho costruito delle invenzioni inserendo battute in 5/4, oppure inserendo gruppi di cinque battute, così che gli accenti cadessero giusti, ad esempio nel secondo brano [Quand’om ha buon amico]. Siccome la regola comune è seguire gli accenti, non risulta forzata questa cosa, purtroppo sentiamo spesso nella musica italiana accenti sbagliati, dagli 883 in poi non se ne salva uno. È una regola banale, ma funziona. C’è una ritmica molto precisa nei testi, come anche in Dante, c’è il giambico, il trocaico, che inducono un movimento musicale. Trovi delle metriche che sono appunto tipiche della musica mediterranea. Le ritmiche sono nel testo, basta seguirle: non c’è nessuna forzatura se si seguono testi che hanno già il seme del ritmo contenuto in essi.

Rachele: Il mio approccio ai testi è stato che inizialmente non capivo tutto, li ho dovuti anche analizzare, tante parafrasi non si trovavano, tante pronunce. Sotto quel punto di vista siamo stati “liberi”, perché in realtà ci sono un sacco di versioni, soprattutto delle canzoni sefardite in spagnolo antico. Insomma, com’è l’originale? Non si sa, quindi interpretiamolo a modo nostro e uniamo le varie versioni che abbiamo ascoltate. A livello di interpretazione invece ho provato timbricamente in alcuni casi anche a sottolineare, per così dire, così che magari anche non sapendo il significato attraverso il tono della voce si capisce il senso.

Roberto: Ecco, quelli che ho chiamato i Sonetti barbarici, li ho chiamati così perché come un barbaro li ho presi e tagliati, “italianizzati”, anche in maniera un po’ drastica. Ho salvato il 60% di quello che in realtà aveva scritto Jacopo, e anche la parte musicale è piuttosto antiaccademica. Ad esempio, ci sono le famose quinte parallele, che sono bellissime in realtà. L’importante è che ci sia coerenza stilistica.

È stato usato un particolare criterio per l’ordine dei brani? E per gli strumenti usati?

Roberto: La tavolozza dei suoni è venuta fuori in questa maniera: un giorno si presenta uno con il mandolino e chiede, posso suonare? È andata veramente così. Loro facevano parte della mia classe di musica d’insieme, poi diversi musicisti si sono aggiunti, io non ho fatto niente, ho aspettato che si facesse la cornice e poi è venuto fuori il quadro. Alcuni brani avrebbero potuto essere suonati con meno strumenti, ma sarebbe stato un peccato, senza quell’accenno di vibrafono, quella nota di mandolino… per non parlare del dialogo tra chitarra elettrica ed acustica. La chitarra elettrica è difficile da dosare, potrebbe diventare predominante e uccidere tutto, come un cuoco che mette troppo sale, quindi lì devo dire che Davide e Pietro sono stati bravissimi. Per quanto riguarda l’ordine dei brani, c’è effettivamente un gruppo narrativo, ha senso che vengano ascoltati in quell’ordine. Poi, per questione di alternanza, abbiamo deciso di raggruppare i sonetti barbarici tutti insieme perché sono più impegnativi, uno deve essere arrivato fino a quel punto con della buona volontà. Arrivato lì ascolti tutto. Nel finale c’è quella che è diventata una “bonus track”, anche perché non c’entra niente con il 1200, è un pezzo del ‘600, che è un brano natalizio, con il featuring di Ares Tavolazzi che ci ha fatto questo bellissimo regalo.

Il titolo e la copertina sono arrivati dopo o c’era già un’idea prima?

Roberto: No, è il titolo è venuto fuori abbastanza presto, è un po’ un riassunto del contenuto dei testi. Per povertà dei mezzi non abbiamo potuto includere un booklet, però ce n’è uno in formato digitale sul sito (https://63345b34d9140.site123.me/) che è sostanzialmente la storia di Dante, il quale si è reso conto di aver fatto un grosso sbaglio a non sposare Beatrice e infatti fa quel sogno dove la vede in mezzo alle fiamme, nelle braccia di un demone che le dà il cuore di Dante. Ecco anche perché nella copertina c’è il cuore. La copertina l’ha fatta mia moglie.

Rachele: Beh, diciamo che Chiara l’ha ascoltato molto il disco, no?

Roberto: Sì, l’ha ascoltato mentre scrivevo i pezzi quindi a un certo punto non ne poteva neanche più. Chiara è un’artista raffinatissima, però su questa copertina abbiamo litigato per mesi. Lei giustamente è una grande perfezionista e non è contentissima della riuscita di questa copertina, sostanzialmente dice che ci sono degli errori nel colore, ma li vede solo lei. Per risolvere questi problemi con la stamperia abbiamo aspettato circa due mesi. Però la litigata familiare è sempre stimolante e creativa, anche lei in realtà ogni tanto non si limita a darmi opinioni sulla parte estetica, mi fa anche delle osservazioni sulla parte musicale, e io vado a correggere.

Avete imparato qualcosa di voi come musicisti e come persone durante della produzione del disco?

Roberto: Io sono una persona estremamente emotiva, anche se non sembra, insomma mi trattengo. Però mi accorgo quando scrivo qualcosa con un significato perché mi emoziono in una maniera profonda, tutt’ora ci sono cose che faccio fatica ad ascoltare. Se arriva in maniera così intensa su di me, penso possa arrivare a chiunque, anche a chi ascolta la trap.

Rachele: Diciamo che ci sono stati dei momenti difficili, perché Roberto quando mi ha inviato i sonetti barbarici ad esempio mi ha dato una responsabilità molto grande e mi ha anche costretta a crescere sotto certi punti di vista prima del tempo. Ha scritto questo brano in un periodo in cui stavo vivendo una delusione d’amore molto grande. Alla fine di questa storia si è inserito un sonetto incredibile che ancora oggi faccio fatica ad ascoltare. È cresciuto con me, perché l’ho dovuto studiare molto approfonditamente, è il primo dei sonetti, tecnicamente difficile. Al primo ascolto era molto lontano dal mio modo di cantare, mentre Roberto voleva che lo sentissi vicino, quindi è stato un lavoro molto lungo. Alla fine, il giorno in cui dovevamo registrare i sonetti non stavo benissimo, avevo una sorta di influenza e ho pensato: proprio oggi che devo cantare questi sonetti! Li ho cantati in una maniera in cui non avevo mai cantato, Roberto si è emozionato tantissimo e mi ha detto: questa noi non la registriamo mai più, lasciamo tutto: le sbavature, gli errori, la nota che scende. Insomma, questi sonetti mi hanno accompagnata in ogni momento bello e brutto dell’ultimo periodo.

Davide: Penso che la cosa più bella di questo progetto fosse la libertà, nel senso che ognuno ha potuto portare nel progetto il proprio background musicale senza risultare incoerente. Abbiamo fatto in modo che il criterio con cui si è suonato fosse coerente con tutto. Quello che arriva secondo me nella musica è la sincerità, non la perfezione, che è altrettanto importante ma sicuramente non è la parte principale.

Roberto: Maledetto ProTools e maledetto sia sempre l’autotune.

Rachele: Si stagna molto a studiare le cose troppo tecnicamente, di fronte ad una produzione quando è ora di registrare la parte più difficile è sempre quella emotiva, non quella tecnica.

Davide: Ogni musicista ha portato il proprio in questo disco e nulla era sprecato. Come Rachele ha portato la sua anima di cultura popolare, siciliana, etnica, tutti hanno portato sé stessi in maniera coerente. Tutto al servizio della musica e dell’emozione.

È incredibile questo, dato che l’ensemble è piuttosto numerosa, ma anche perché ultimamente c’è una grande enfasi sulla persona più che sulla sua musica.

Rachele: Vero. In questo album poi abbiamo fatto un lavoro di missaggio e masterizzazione lunghissimo, perché ci sembrava sempre che la voce fosse troppo “avanti”. Per non parlare di tutti gli strumenti che suonano insieme, a volte che raddoppiano la voce…

Roberto: Al momento della masterizzazione ho chiesto che venisse trattata come musica classica: si deve sentire tutto e niente deve essere affogato da niente, se poi uno vuole sentire meglio alza il volume. Fatte queste considerazioni, il risultato è stato perfetto. Ci abbiamo messo moltissimo tempo comunque, abbiamo iniziato il disco a marzo ed è uscito a dicembre. Non avevamo nessuna fretta di pubblicare in un certo periodo, anche perché non abbiamo investito molto sulla pubblicità, ci siamo appoggiati anche al crowdfunding per realizzare il disco. Dei cinquecento CD già circa duecento sono andati in giro.

Avete in mente progetti futuri?

Roberto: Sul mio computer c’è già la musica per il secondo volume. Soprattutto sto cercando dei modi “poco convenzionali” per suonare in live, perché questo disco non lo puoi suonare ovunque, anche semplicemente per via del numero di suonatori. C’è una possibilità di farlo all’abbazia di Pomposa, che sarebbe veramente un posto ideale. Nel frattempo, per il secondo disco aspettiamo.

Come avete vissuto il disco?

Davide: Tutti i brani hanno una loro caratteristica particolare, che richiedeva un’intenzione diversa. Non c’è un brano più importante degli altri, almeno secondo me. Il bello della parte anche più tecnica è stato il saper stare dentro l’insieme, bisognava sempre avere una cognizione del proprio ruolo nell’insieme. Ad esempio, nel primo brano, in cui c’è un arpeggio di chitarra acustica molto dolce, leggero, è altrettanto importante quando viene fuori il tema principale. Il secondo brano ha un sapore già più “rock progressive”, echi di PFM diciamo, anche lì devi far valere il tuo ruolo. Prima parlavamo dell’epoca dei solisti, ecco sarebbe bello recuperare il ruolo dell’accompagnamento, di ascoltare, di guardarsi intorno. È una questione anche di periodo storico probabilmente. Questo disco potrebbe essere anche un invito ad aprire gli occhi, ad ascoltare gli altri.

Rachele: Sì, per noi musicisti è un invito ad ascoltare, per chi ascolta è un invito ad andare a fondo, ascoltare i dettagli. Magari senti la voce e pensi, ma sotto cosa c’è? Gli strumenti parlano, tra tutti secondo me Sien drahmas al dia è un esempio lampante, ed è anche il mio preferito. Ecco, un dettaglio che magari è difficile ascoltando e basta è la differenza tra i sonetti barbarici e il resto come modo di registrazione. Io e Paola, la pianista, abbiamo registrato nella stessa stanza, praticamente una di fronte all’altra, perché volevamo restituire una certa spontaneità e intimità. Tra l’altro io e Paola non ci potevamo vedere perché in mezzo c’era il piano, eppure riuscivamo a coordinarci a vicenda.

Un’ultima domanda: è una coincidenza che l’album finisca con la frase “Viva, viva l’Eternità!” oppure no?

Rachele: Credo sia avvenuto abbastanza per caso.

Roberto: Se è avvenuto per caso è stato un caso perfetto, la famosa serendipity. In effetti è come un cerchio che si chiude in qualche modo. Poi c’è una sorta di religiosità laica, anche nei brani che non sono esplicitamente religiosi, perché è questo il concetto che si vive nella poesia medioevale e rinascimentale. Non sono mondi diversi, uno vive la propria spiritualità attraverso la forma poetica, quindi ogni parola è ragionata e mai messa per caso. Che poi, il testo originale era molto più lungo, ma suonava bene finendo così.

***

I temi affrontati da questo disco sono radicati profondamente nell’animo umano e le musiche, composte e interpretate con grandissimo tatto, non possono che indurre una riflessione attiva, sia per le influenze e citazioni che per i testi. Un album organico, con una complessità “a strati” che risulta comunque molto accessibile. Dalle parole di Roberto Manuzzi: “sono ormai convinto che l’età che stiamo attraversando sia una specie di nuovo medioevo […] Nonostante ciò, in questa confusione resistono isole di intelligenza e di bellezza, custodite da coraggiosi sognatori.” È vitale, quindi, che ogni tanto ci fermiamo, dimentichiamo la frenesia, il materialismo, l’individualismo e diamo spazio alle cose che ci rendono umani.

Giovanni Ferrari, Vittorio Formignani

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