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Raffaele Cirillo

All That You Can Do Is Watch Them Play – Concerto dei Blur al Lucca Summer Festival

All That You Can Do Is Watch Them Play – Concerto dei Blur al Lucca Summer Festival

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Raffaele Cirillo

Molte parole sono già state spese per il concerto dei Blur tenutosi nella ormai classica location estiva dell’ex campo balilla lungo le mura di Lucca per la rassegna Lucca Summer Festival. Si è parlato di nostalgia, di festa generazionale, ma anche di contemporaneità e di sogni realizzati e celebrati. Questa non vuole essere una recensione – tutte quelle scritte hanno infatti confermato l’eccezionale performance regalataci dalla band – ma un racconto personale di un momento intimo co-vissuto con altre 39.999 persone.

Con tutta la dovuta onestà ammetto che non sto parlando della band che ho seguito dalla mia adolescenza e per cui nutro quell’ammirazione intrisa di nostalgia, ma è solamente da pochi anni che sono diventato un ascoltatore attento della band inglese. Tuttavia non ho mai nascosto la genialità poliedrica di Damon Albarn.

L’annuncio della loro unica data italiana mi aveva spiazzato, non era attesa anche se già da tempo si vociferava di una reunion e non potevo mancare: erano i Blur e solo pochi mesi prima avevo ammirato Damon Albarn arrampicarsi sulle gradinate dell’arena di Verona in concerto con i Gorillaz in una performance energica e instancabile, per un personaggio che non è più proprio un giovincello. Le premesse c’erano tutte, mancava solo un nuovo album che non è stato pubblicato fino al giorno prima della data italiana.

I biglietti accuratamente posti sulla mia libreria tra le mie edizioni di Essere e Tempo erano oggetto di sguardo ogni mattina, un rituale per essere sicuro che siano ancora là vista la mia costante preoccupazione nel perdere le cose. I giorni sono trascorsi, la vita ha dato i suoi sberloni, le contraddizioni si affermavano, le rassegne estive incominciano e insieme a loro le recensioni, le parole che ogni estate vengono riproposte per descrivere e presentare i concerti. Iniziano le stories, i ricordi vengono accumulati e “riposti nel cloud” perché senza questi riti per un appassionato di musica non è una vera estate.

Arriva il 22 Luglio, si parte, mancano poche ore al concerto. Il pensiero c’è ma il viaggio è accompagnato dai Morphine, The Replacement e Tom Waits: insomma, tutto decisamente poco British. La mia unica “preoccupazione”, o meglio desiderio, era quello di piazzarmi più in linea possibile con Graham Coxon per osservare religiosamente il suo fare da pazzo nerd sul palco.

La giornata è piacevolmente calda, le birre rinfrescano lo spirito e ancora il pensiero non era rivolto alla serata da passare in compagnia di una delle band più importanti degli ultimi trent’anni, ma alla povera ragazza del pub che si stava sorbendo un infernale turno di lavoro (ancora a lei rivolto il pensiero nel post concerto, chissà…). Sono quasi le 20, ci avviamo, c’è pur sempre un’energica band di giovani in apertura da ascoltare, tali Sound Mint e l’impatto con loro è stato sicuramente positivo o almeno quanto basta per scaldarsi e abituarsi all’atmosfera da grande concerto.

Dal termine del loro set all’inizio del concerto passa quasi un’ora. Ore 21:30 si presenta con il suo improbabile outfit e la fondamentale sigaretta Alex James sul palco, seguono Coxon e Albarn, che saluta il suo pubblico. Sì, il suo pubblico, non quello dei Blur, perché come ha tenuto in mano quarantamila persone per due ore l’ho visto fare a pochi: un dialogo, uno scambio, nessun ego, mai nulla fuori posto, energia, sorrisi e coinvolgimento; è risaputo che l’Italia per lui è qualcosa di più di uno dei tanti paesi in cui suonare. Si parte con un brano tratto dall’ultimo album, St. Charles Square, seguono un’infilata dei grandi classici della band e si capisce che non si sono riuniti sul palco per accontentare fan nostalgici o perché i Blur stessero per finire nel dimenticatoio, ma esclusivamente perché a loro quei brani piacciono. Li vogliono suonare, vogliono divertirsi nel farlo e apprezzano il pubblico – di cui dopo parlerò – che non perde neppure una parola di nessun brano. C’è intensità ed energia, le cose vengono messe in chiaro al momento di Beetlebum, quando tutto per un momento rallenta e il sottomura diventa un unico coro. L’essenza dei Blur sta tutta qua alla fine: nascono alla fine degli anni ’80, crescono negli anni ’90 passando per le riviste patinate e diventando un po’ il simbolo dei bravi borghesi del sud dell’Inghilterra, ma in realtà sono un connubio unico di humour e profondità. Energia e ballad sempre toccanti, non sono superstiti, i suoni sono classici e moderni allo stesso tempo e Damon Albarn ha dimostrato di non essere solo il demone da poster appeso chissà in quante camere di adolescenti negli anni ’90 (e chissà di quanti intorno a me), ma un artista al passo con i tempi, anzi, un anticipatore.

C’erano inadeguati maxischermi e, ad esclusione di una scritta luminosa con il logo dei Blur issata sul grande palco e gli ormai canonici giochi di luce, lo show erano loro e la loro musica, nuda e cruda senza orpelli, senza regia, si improvvisa quando si presentano problemi tecnici e Albarn corre instancabile da una parte all’altro del palco, si butta sulla gente, rendendo difficile la vita alla security e soprattutto a quel povero tecnico che passa l’intero concerto a sistemare il cavo del suo microfono – perché sì, un microfono radio è troppo borghese.

Non mi dilungo oltre, il web è pieno di recensioni che descrivono ogni momento, ma vorrei concludere parlando del pubblico. Un concerto non è pienamente riuscito se non c’è un grande pubblico e quel sabato sera c’era un ottimo pubblico, che si è goduto il concerto dalla prima all’ultima nota, ha cantato ogni brano a squarciagola, qualche foto sì, qualche video ricordo, perché no, non sono quei pochi secondi che distruggono l’atmosfera, un pubblico che non era lì per raccontare di esserci ma perché voleva esserci e questo fa tutta la differenza del mondo. 

Sono 176 giorni i giorni che passano dalla pubblicazione di Parklife, il disco della consacrazione, e il giorno della mia nascita, li ho conosciuti quando avevo una conoscenza musicale che posso definire solida, ma solo ora mi rendo conto che questo gruppo è stato quello che forse più di tutti mi ha insegnato e dimostrato il valore del sentimento musicale, di quanto nonostante gli alti e i bassi, il successo e gli addii, sia bello condividere il palco con gli amici di sempre e di quanto sia importante poter condividere in maniera diretta la propria musica con un pubblico, e parla uno che stava iniziando a perdere quel senso che è la condivisione diretta tra artista e fruitore e che solo un arte come la musica è in grado di dare in maniera istantanea.

È con The Universal che per la prima volta ho versato una lacrima a un concerto, forse perché certo che quel momento stesse per terminare e diventare un ricordo, o forse perché tutto questo per me sarebbe dovuto andare diversamente, ma alla fine sull’ultima nota mi sono reso conto di aver visto e di essermi goduto il concerto che avrei sempre voluto vivere. 

Il concerto è terminato e le luci illuminano la location per agevolare il flusso di persone dirette alle loro mete, chissà che fine hanno fatto i nostri vicini di platea; alla fine i concerti diventano quei momenti i cui frequenti persone di cui non conosci neppure i nomi ma che faranno sempre parte dei ricordi. La gente è soddisfatta e continua a cantare Tender durante il pellegrinaggio ma… chissà se quella ragazza è sopravvissuta al turno.

Set List:

  • St. Charles Square
  • There’s No Other Way
  • Popscene
  • Tracy Jacks
  • Beetlebum
  • Trimm Trab
  • Villa Rosie
  • Coffee & TV
  • End Of a Century
  • Country House
  • Parklife
  • To The End
  • Oily Water
  • Advert
  • Song 2
  • The Narcissist
  • This is a Low

Encore:

  • Barbaric
  • Girls and Boys
  • For Tomorrow
  • Tender
  • The Universal

Redatto da Raffaele Cirillo

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